I sette inferni della visione buddista.
I. L'inferno degli escrementi.
Il sentiero si snoda tra le colline gelate che costeggiano la strada statale, invaso dalle erbacce e punteggiato da pozze di fenoli corrosivi.
Pa' mi precede di qualche passo, gli scarponi sollevano schizzi di fango, guardarli andare su e giù ha un effetto ipnotico.
Scuoto la testa e per scacciare la sonnolenza faccio un paio di respiri profondi. L’aria fredda odora di canfora e aglio, idrocarburi a catena corta, l’onnipresente aroma del benzene oggi è appena accennato.
Guardo il sentiero davanti a noi, poco più avanti cambia direzione e si dirige verso la statale passando sotto un cavalcavia rimasto incompiuto.
Dietro le impalcature svetta l’insegna storta di un distributore di carburante. Il cartello è spaccato e ha perso la prima lettera. Su quello che resta si legge «HELL»
.
Non riesco a apprezzare l’ironia di un gioco di parole nato vecchio.
Pa' lo indica e ci incamminiamo in quella direzione.
Superiamo un gruppo di alberi bruciati dalle piogge acide, scavalchiamo un canale di scolo pieno di fango scivoloso e gel di plastica semisolida e arriviamo alla stazione di servizio.
Le pompe arrugginite giacciono divelte ai margini dello spiazzo, sotto lo scheletro bucherellato di quel che resta della copertura.
Pa' si ferma, porta l’indice alla bocca, mimando uno «shhh»
silenzioso. Usa la mano sinistra, quella senza le falangi delle ultime tre dita, che ostenta ogni volta che vuole metterti a disagio. Mostrare le dita maciullate è uno dei trucchi che usa per manipolare le persone. Con me non funziona più.
Restiamo fermi, in ascolto. L’unico suono è quello di un telone da imballaggio incastrato tra i rottami che sventola frusciando, mosso dal vento.
Pa' sembra soddisfatto e riprende a camminare. Si abbassa la sciarpa, gli occhi grigi sono arrossati a causa del vento freddo e della polvere di fullereni. La barba incolta è ormai più bianca che nera, si invecchia in fretta e male sotto un cielo tossico.
Lo seguo, i frammenti delle vetrine frantumate sparsi per tutto il piazzale scricchiolano sotto la suola degli stivali. Il prefabbricato grigio che ospitava la cassa è ancora in piedi ma una parte del tetto è crollata, schiacciando il bancone, gli scaffali e i dispenser degli snack e delle cianfrusaglie in vendita.
I pochi contenitori che non sono accartocciati sotto le macerie sono vuoti, saccheggiati chissà quanto tempo fa. Qualcuno ha costruito un riparo improvvisato usando una delle pareti e alcuni jersey presi dalla strada, sul cemento si vedono ancora le tracce dove sono stati trascinati attraverso il piazzale.
Pa' scalcia via le pietre dall’asfalto davanti a quello meno rovinato, si toglie lo zaino e si siede. Lo imito e mi lascio scivolare lungo la parete del jersey, la schiena dolorante e irrigidita dalla stanchezza della camminata.
Trovo una posizione comoda, sgancio la borraccia, la stappo e gliela porgo. Rifiuta senza guardarmi. Sorseggio il tè tiepido e stendo le gambe, cercando di rilassare i muscoli mentre osservo il panorama.
Stiamo camminando dalle prime ore dell’alba e ora il sole è già alto, una macchia arancione più intensa nel cielo color senape. Dalla mia posizione ho una visuale perfetta della statale, che punta senza deviazioni verso le colline all’orizzonte. C’è la solita leggera foschia giallastra e poche nuvole basse che si spostano lentamente.
Non tutte.
Pa' ha gli occhi chiusi e la testa appoggiata all’indietro, la bocca spalancata, il respiro pesante. Non so se sta dormendo ma evito di disturbarlo prima di essere sicuro di cosa ho visto. Ripongo la borraccia, mi tiro un po’ su e recupero dalla tasca dello zaino il mio binocolo. Pa' mi prende in giro ogni volta che lo uso, sempre con la stessa battuta: «La Bohème o Turandot?»
mi dice, e ride.
Quel che è peggio è che ogni volta devo ridere con lui.
Però ha ragione, è davvero un binocolo da teatro, ma è l’unico utilizzabile che sono riuscito a trovare. Quello buono, un mirino da puntamento di produzione militare, se lo è accaparrato lui.
Punto le lenti e, anche con quei pochi ingrandimenti, capisco di aver visto bene. La nuvola resta immobile nonostante la brezza, come se fosse disegnata sullo sfondo. Nasconde in parte un vecchio traliccio dell’alta tensione, è di un giallo malaticcio e attraversata da sottili striature di un azzurro livido, del colore delle vene varicose.
Non parliamo da quando siamo usciti dal villaggio, la mia voce è rauca.
«Ehi pa' guarda, quella nuvola sta per cagare.»
Pa' è vecchio ma ancora veloce, cazzo se è veloce. Un manrovescio che non vedo arrivare mi fa sbattere la testa contro lo spartitraffico chiazzato di catrame.
«Ti ho detto di parlare come si deve.» ibila a denti stretti. «Non farmelo ripetere un’altra volta.»
Mi gira la testa, mi fischiano le orecchie e in bocca sento il sapore del sangue, ma sono pronto a rispondere: «Sì pa', scusa pa'.«
Quando lui si alza in piedi mi irrigidisco, mi aspetto altri colpi ma, in uno dei suoi tipici sbalzi di umore, è di nuovo calmo\ Si inchina sul bagaglio, fruga un po’ e si rialza con in mano il suo prezioso cannocchiale.
«Quale nuvola, schizzo di guano?»
Mi metto in piedi, fuori portata dal suo braccio, e gli indico il punto all’orizzonte.
«Laggiù, se segui la fila dei tralicci dell’alta tensione la vedi subito.»
Lui guarda nelle lenti per un po’, il poncho da viaggio che ondeggia piano nel vento.
«Hai ragione, sembra proprio bella carica.»
Mi guarda di traverso.
«Hai un buon occhio ragazzo.«
Il suo sorriso è falso e cattivo, come il suo alito.
«Quasi compensa la tua lingua marcia. Quasi.«
Prudentemente resto in silenzio. Lui ripone tutto nello zaino e mi indica le corsie asfaltate piene di buche.
«Andiamo più vicino, da qui in poi la statale dovrebbe essere sicura.»
Allenta le cinghie del suo zaino e me lo porge.
«Tieni, prendi anche questo.»
E con un ghigno aggiunge: «Vai avanti tu.«